Rossini e la “Petite Messe” con il tenore Marco Berti

17 dicembre 2017 | 08:22
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Rossini e la “Petite Messe” con il tenore Marco Berti

La Stagione Concertistica del Teatro Sociale di Como prosegue martedì 19 dicembre alle ore 20.30 con LA PETITE MESSE SOLENNELLE, uno di quelli che Gioachino Rossini amava definire ‘peccati di vecchiaia’, ovvero le composizioni sacre e da camera nate in tarda età, dopo l’addio alle scene nel lontano 1829 con Guglielmo Tell.

Oltre a rappresentare il testamento spirituale di Rossini (fu composta nel 1863, una manciata di anni prima della morte), la Petite messe è unanimemente riconosciuta come uno dei massimi capolavori del XIX secolo e si caratterizza per il suo linguaggio decisamente svincolato dallo stile romantico allora imperante e già proiettato verso la musica moderna.

Molta Como tra i protagonisti di questo gioiello per piccolo organico, ad iniziare dal tenore comasco Marco Berti. E’ un cantante dalle grandi capacità vocali e interpretative ed è dotato di una voce suadente ed espressiva, corposa e molto presente. Le sue appassionate interpretazioni hanno fatto rivivere i personaggi della lirica in tutti i più grandi teatri del mondo: dal Covent Garden di Londra al Metropolitan di New York, dal Teatro alla Scala di Milano all’Opéra di Parigi, dallo Staatsoper di Monaco al New National Theater di Tokyo.

Concittadino anche il Direttore Mario Moretti che si è diplomato in pianoforte al Conservatorio ‘G. Verdi’ di Milano con Alda Vio, quindi in composizione sotto la guida di Alberto Soresina. Dopo un’intensa attività concertistica quale pianista, si è dedicato al teatro come maestro sostituto ed alla musica corale come maestro del coro, partecipando ad importanti festival e rassegne in Italia e in alcuni paesi europei, con orchestre e solisti di fama internazionale. Dal 1974 ha assunto la direzione del Coro Città di Como, collaborando con affermati direttori, quali: Riccardo Chailly, Gustav Kuhn, Roger Norrington, Marcello Rota, Roberto Rizzi Brignoli, Marcello Viotti, Alberto Zedda ed altri, nell’ambito delle stagioni liriche del Teatro Sociale di Como (dal 1988 al 1996) e di alcune di OperaLombardia.

La serata è in collaborazione con Lions Club Como Lariano e parte del ricavato sarà destinato a Centro Servizi Cani Guida Lions di Limbiate.

TEATRO SOCIALE DI COMO

martedì, 19 dicembre 2017 – ore 20.30

PETITE MESSE SOLENNELLE

Musica di Gioachino Rossini

Soprano          Enkeleda Kamani

Contralto         Alessandra Palomba

Tenore            Marco Berti

Basso              Massimiliano Travagliati

Pianoforti        Giovanni Brollo, Giorgio Martano

ArmoniumIvano Raffaglio

Maestro del coro Mario Moretti

Coro Città di Como

Coro Polifonico Benedetto Marcello di Mendrisio

in collaborazione con Lions Club Como Lariano

Biglietti per lo spettacolo in vendita presso la biglietteria del Teatro e online su www.teatrosocialecomo.it. Posto unico 25€ + prevendita.

teatro sociale sinfonica marco berti

«Cette petite composition qui est hélas le dernier péché mortel de ma vieillesse»

di Nicolò Rizzi

«Signore, rassicurati, non ci saranno Giuda alla mia cena e canteranno bene e con amore, le tue lodi e questa piccola composizione, ch’è ohimè l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia». Gioachino Rossini era già in là con gli anni quando, ormai da tempo in Francia, si apprestò a portare a termine un compito prefissosi da tempo: la composizione di un’opera sacra in cui compendiare la sua piena maturità musicale. Conservando intatta la propria intelligenza e proverbiale ironia, il Genio pesarese decise di ascrivere così questa sua Messe «petite», ma «solennelle», entro quella squisita collana di preziosi che sono i suoi Péchés de vieillesse (Peccati di vecchiaia), scegliendo di concluderne il manoscritto con un congedo nientemeno diretto che al Padreterno: «Buon Dio, eccola terminata quest’umile piccola Messa. È musica benedetta quella che ho appena fatto, o è solo della benedetta musica? Ero nato per l’opera buffa io, lo sai bene! Poca scienza, un poco di cuore, tutto qua. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso!». Dichiarazione sorniona – di uno scettico, certo – verso una fede che in quest’opera par però riscoperta, con mirabile freschezza, in pagine vivide per sincera spiritualità.

«È il nostro Giove e tiene noi tutti nel cavo della sua mano!»

Una qual certa contraddizione accompagnò questo capolavoro, sin dalla nascita e dalla sua première, il 14 marzo 1864, presso la cappella privata della contessa Louise Pillet-Will, poi dedicataria della composizione. Fu un vero successo: pur se in sede privata, vide presenziarvi nobili e compositori, politici e banchieri (tra cui i potentissimi Rotschild), star del belcanto e critici musicali. In seguito, però, lo stesso Rossini parve chiudersi in un atteggiamento stranamente ‘protettivo’ nei confronti della sua propria creatura: dapprima ne vietò qualsiasi altra pubblica esecuzione, poi scelse invece di prodigarsi (anche se invano) affinché lo stesso papa Pio IX ne dichiarasse l’ammissibilità nell’ufficio divino. Ad ogni modo, vivente l’autore, la Messa conobbe altre due sole esecuzioni, ambedue private. Ai fini di una possibile diffusione ecclesiastica, Rossini si impegnò così in un’attenta trascrizione orchestrale. Purtuttavia, la prima in casa Will fu realizzata con l’organico originale per coro, 4 solisti, 2 pianoforti e armonium. Compagine affatto particolare per l’epoca, semplice e nuda, con l’armonium in vece dell’organo, rappresentante di un mondo chiesastico campagnolo, popolare, certo non quello marmoreo ed algido delle grandi cattedrali parigine. Quindi in grado di consegnare le voci soliste ad un’inusitata purezza timbrica, assente – per intenderci – in capolavori coevi come il Requiem di Verdi. Singolare soluzione di colore, in un periodo da un lato tutto schiacciato dalle agitazioni del tardoromanticismo, dall’altro teso al ritorno della purezza gregoriana agognata dal ‘Movimento Ceciliano’. Tra i musicisti presenti il giorno della prima, un Giacomo Meyerbeer quanto mai sconcertato e in preda all’ammirazione si trovò ad esclamare, per la novità e modernità dimostrate dal vecchio Rossini: «Tiene noi tutti nel cavo della sua mano!».

«Per cantar le glorie del Signore fan d’uopo le voci bianche, anche di contralto e soprano!»

Così scriveva di proprio pugno Rossini nell’ottobre 1866, più di due anni dopo la prima della sua Petite messe, all’organista di Montecassino, padre Placido Abela, in seguito al fallito tentativo di far ritirare la bolla papale contro il canto femminile negli uffici religiosi. Nemmeno l’intervento di Franz Liszt, che a quel tempo già vestiva l’abito togale, riuscì a smuovere il conservatorismo papale in materia. L’anziano compositore dovette quindi mettere in un cassetto la propria partitura e rassegnarsi: in chiesa la sua Messa non sarebbe mai stata eseguita. Per reazione, il musicista si fece a riguardo scontroso e riservato oltremodo: né ai più intimi amici, né all’arcinoto critico musicale Eduard Hanslick riuscì di farsi mostrare quelle carte. Come già detto, Rossini sarebbe tornato sui suoi passi, approntando l’orchestrazione dell’intero ciclo. La speranza era che, normalizzato l’organico, la strada per l’ingresso in chiesa si facesse meno impervia. Negli anni a seguire, si è a lungo dibattuto su quale versione avesse quindi più valore eseguire in concerto. Bastano invero  queste poche parole, a Liszt indirizzate dal vecchio Rossini, per fugare ogni dubbio: «Si vorrebbe ch’io la strumentassi [la Messa] per eseguirla poscia in qualche grande Basilica parigina; ebbene, ho ripugnanza ad intraprendere tal lavoro, avendo posto in questa composizione tutto il mio piccolo sapere musicale e lavorato con vero amore di religione». Eppure – come troppo spesso nella storia dell’arte – la volontà d’autore venne in fretta dimenticata. Fu così che il 28 febbraio 1869 (primo anniversario postumo della nascita del pesarese) la Messa ricevette finalmente la prima sua pubblica esecuzione, anche se nella versione orchestrale e in pompa magna al Théâtre italien, in piena capitale. Nulla di più lontano da quell’intimità religiosa che Rossini aveva immaginato.

«Adatta alle più lontane future generazioni»

Certo un altro rischio, per questa pagina rossiniana, risiedé inizialmente nel suo venir considerata troppo ‘teatrale’ (in senso operistico) per esser annoverata come autentica musica di chiesa. Solo a titolo d’esempio: il Gratias agimus tibi è un vero e proprio terzetto d’opera, il Domine Deus una splendida aria per tenore e il Qui tollis un inquieto duetto per soprano e contralto, tutto vibrante di drammatico pathos. A questo s’aggiunse anche l’iniziale maggior diffusione della versione orchestrale, che a lungo soverchiò l’originale da camera, al contrario più raccolta e spirituale, quasi – verrebbe da dire – da ‘musica riservata’. Non tutti i commentatori, beninteso, si dichiararono perplessi per le scelte rossiniane, se Jacques Léopold Heugel su Le Ménestrel si trovò invece ad elogiare quanto «lo scaltro Maestro vi si divincola come per incanto dalla scuola, di cui si prende pur gioco, sfidandola sul proprio terreno per soggiogarla o uguagliarla, da domatore invincibile». E questo mentre lungo lo scorrere della Messa si scorge far capolino qua e là «l’ardore della giovinezza, temperato dalla maturità del genio, purificato dal più elevato sentimento dell’arte». Se, insomma, Rossini scontentò da un canto quel desiderio di grandeur così tipicamente francese e s’invalse dall’altro la riprovazione dei più intransigenti tra i puristi ‘ceciliani’, possiamo concordare con l’Heugel nel definire questa Petite messe una musica «viable pour la posterité la plus reculée» («adatta alle più lontane future generazioni»). Riconfermando così come quanto più un’opera si disvela capace di travalicare i propri limiti temporali, di gusto, di moda, di anguste convenzioni sociali, tanto più si aprirà a restituire intatto il proprio senso recondito, la sua più esatta parola. Come la si scelga di interpretare, poi, è questione secondaria: c’è chi vorrà udirvi il ‘saper musicale’, chi ‘amor di religione’; tutti stupiranno però di fronte alla pura bellezza delle forme, all’armonia di colori e di linee vocali, alla cura sapiente dell’architettura, dietro cui par di vederlo sorridere il buon vecchio Rossini. Non ci è dato sapere se Dio l’abbia fatto, ma noi – è cosa certa – il suo ultimo ‘peccato di vecchiaia’ glielo abbiamo più che perdonato.