“Ladri di foglie”, la recensione del libro di Davide Van De Sfroos

18 dicembre 2018 | 19:35
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“Ladri di foglie”, la recensione del libro di Davide Van De Sfroos
“Ladri di foglie”, la recensione del libro di Davide Van De Sfroos
“Ladri di foglie”, la recensione del libro di Davide Van De Sfroos

Chi può rubare il vento? Inizia con questa domandaLadri di Foglie (ed. La nave di Teseo), il libro di Davide Van De Sfroos di cui avevamo già scritto ad ottobre in occasione dell’uscita. Torniamo su questo ennesimo capitolo del percorso artistico di Davide con la bella recensione di Laura Bianchi per la rivista Mescalina. Qui ne riportiamo una parte.

davide van de sfroos ladri di foglie

Le foglie sono figlie degli alberi. Anche i fogli lo sono. Chissà se Davide Bernasconi, in arte Davide van de Sfroos, nelle sue scorribande da contrabbandiere della parola, ci ha mai pensato. Lui che frequenta foglie d`albero, e fogli di carta, da una vita, e che cerca da sempre di mettere in connessione natura e cultura, radici e aria, passato e presente.

Dopo un periodo, terapeutico, di silenzio creativo e mediatico, strumento per una riflessione interiore, Bernasconi sceglie di tornare, ma lo fa con i fogli di carta, per consegnare alle stampe, per i tipi della casa editrice La nave di Teseo, una raccolta di racconti, appunto, Ladri di foglie.

Voce dalle radici solide, ma dalle estremità fragili, come quelle di un albero, la voce narrante, nel corso del quindici racconti, a volte si espone al lettore in modo quasi imbarazzante, oppure si cela dietro a alter ego, tanto improbabili, quanto proiezioni delle mille personalità, che un artista sensibile ha assorbito nel corso della sua esistenza, o ancora, raggiunge un equilibrio miracoloso fra coinvolgimento diretto e distacco cinico. Ma, in ogni caso, è impossibile mettere in dubbio la spontaneità e l`urgenza della scrittura, che, è evidente, risponde al desiderio dell`autore, qualunque voce possa assumere, di tornare sui suoi passi, rivedere il percorso compiuto, con serenità dolente, e consegnarlo al lettore, chiedendogli di non giudicarlo, bensì di comprenderlo.

Insieme a foglie di platano, di vite, di querce dette Gargantua, di tigli chiamati A love Supreme, di palme, di pruni selvatici ribattezzati Vazkor, si muovono e vivono esistenze spesso frantumate, spaesate, losers nemmeno tanto beautiful (non affascinanti perdenti ma sacco della spazzatura indifferenziata, come si legge in un racconto); uomini e donne che la vita ha trascinato via, nel soffio incessante del Grande Viaggiatore, un vento onnipresente, a volte impietoso, altre rassicurante. E lo sguardo del narratore si nutre di ricordi, rimpianti, di un senso del tempo passato e passante, centro della rosa e scodella di futuro, camminando dentro, o accanto, ai propri personaggi, in bilico fra psicofarmaci, dai nomi troppo appropriati per essere inventati, disturbi bipolari, attacchi di panico, fatti di sangue, forze del bene e del male in una lotta assolutamente pagana, tensione verso una spiritualità sciamanica e immanente nella natura. Lo sguardo è acuto come la scrittura, densa di echi alla narrativa americana, dall`aggettivazione connotativa e calzante, che crea un`atmosfera sospesa, onirica, ma anche concreta, quasi tangibile.

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