INCONTRI: “Keep it” Damiano Della Torre

di Sabrina Sigon
Influenze fusion e progressive, tastiere, sax batteria e voce, quella di Damiano Della Torre che, per questo nuovo album, ha scelto di trattare temi che riflettono il suo percorso musicale e personale.
Nato a Como nel 1973, Damiano Della Torre è diventato uno dei grandi protagonisti della scena musicale comasca sin da giovane quando, ultimati gli studi di pianoforte al conservatorio di Como Giuseppe Verdi, grazie alla sua straordinaria capacità di suonare il pianoforte e le tastiere (ma anche diversi strumenti a percussione, a corde e a fiato), ha subito cominciato a collaborare con alcuni grandi nomi internazionali tra cui: Tom Jones, Joe Cocker, Luciano Pavarotti, Adriano Celentano, Terence Trent D’Arby, PFM, Miriam Makeba. Un percorso davvero interessante, il suo, che vorrei cominciare a raccontare partendo proprio dall’ultimo album: “Keep It”.

La prima volta che chiamo Damiano per l’intervista lui è in macchina, e sta tornando da Castel San Pietro Terme, che lo ha visto in concerto lo scorso mercoledì 19 giugno all’Accademia del Pomelo, insieme al musicista Alessandro Ciullo.
“Com’è andato il concerto di ieri sera”, gli chiedo per cominciare.
“Benissimo!”, dice, e la gioia della sua voce arriva fin qui. “Abbiamo suonato proprio come volevamo. Sai, ci stiamo preparando per Isabella che sarà insieme a noi domenica 23 giugno all’Officina della Musica di Como. Per lei vogliamo essere perfetti”, dice, poi continua divertito: “anche se, durante la serata, conoscendoci uscirà qualcosa di improvvisato. Lo capirai da lei, nel momento in cui ci guarderà di traverso”.
È bella la leggerezza che sento nel suo tono, è quella di un concerto andato bene.
La presenza e la consapevolezza di essere vivi, la relatività del tempo e dello spazio, sono i temi su cui Damiano ha costruito l’ultimo lavoro: la prima domanda è quindi riferita a questi temi, e a come li ha sviluppati attraverso la musica.
Tutto è cominciato nell’estate del 2003, una delle estati più calde dell’ultimo ventennio, mi trovavo in un momento particolare della mia vita, direi quasi mistico. Arrivavo da un periodo in cui avevo fatto tanti concerti dove, nella maggior parte dei casi, avevo suonato cover di Jimi Hendrix, dei Doors e molti altri autori. Mi è sempre piaciuto lavorare con passione, senza pormi troppe domande, interpretare i classici era una cosa che facevo senza difficoltà ma, in quel periodo, ero arrivato a un livello di saturazione e sentivo un forte attrito fra quello che stava crescendo dentro di me e quello che suonavo. Avvertivo un richiamo spirituale che aveva bisogno di essere espresso. Una sera, durante un concerto – quella sera suonavo la batteria -, a un certo punto mi fermo e smetto improvvisamente di suonare, provocando anche un certo scompiglio fra il pubblico. Qui, devo dire, l’intervento dei miei compagni è stato determinante, perché mi hanno dato il sostegno e l’amicizia di cui avevo bisogno.
Ed è stato proprio dalla domanda: “Cosa possiamo fare per te, per farti stare bene?” di Samuel Cereghini e Nadir Giori, che è nato questo progetto. “Venite nella mia casa per due mesi”, ho risposto, “è in campagna. Venite e componiamo i brani che ho in testa”.
In campagna ci siamo andati davvero, per un paio di mesi, e c’erano idee, pezzi musicali, testi che si sono evoluti, concetti che avevo bisogno di esprimere e che Samuel, che era bravo in inglese, mi ha aiutato a tradurre. Perché era quella la lingua che volevo utilizzare, per fare in modo che il mio ascolto potesse diventare internazionale.
Quindi i semi di questo lavoro nascono da lì, da quella esperienza che, mi hai raccontato, aveva bisogno di altro tempo. Il tempo, quindi, è stato tuo nemico o alleato in questo progetto?
Quando abbiamo composto questi brani abbiamo pensato anche a una serie di concerti, ma al terzo mi sono reso conto che per me era ancora troppo presto, vista l’emozione che provavo nell’esprimere con musica e testi ciò che sentivo nel profondo. Sono pezzi intensi, forti da suonare e, musicalmente, molto elaborati. C’è stato bisogno di tempo e, al momento giusto, il tempo è arrivato. Il tempo mi è stato alleato. Figurati che, adesso, il basso sono io a suonarlo, con la mano sinistra.
A proposito di strumenti musicali, il fatto di essere polistrumentista come ha influenzato il tuo modo di vivere la musica?
Saper suonare più di uno strumento è per me una grande soddisfazione, oltre al fatto che, con diversi strumenti, hai la possibilità di cogliere un maggior numero di modalità espressive; però, per contro, a volte questa capacità ti rende difficile focalizzare al meglio quello che vuoi fare. Ho impiegato anni per capire quale genere musicale desideravo davvero suonare e, nell’ultimo album, sento di aver raggiunto una buona dose di consapevolezza, che mi ha portato al prog e fusion, utilizzando le sonorità che mi rappresentano al meglio.
Ogni disco, come ogni periodo della vita, è diverso e, in questo momento, sono molto soddisfatto perché ho trovato ciò che veramente mi piace.
Di grande livello è stata anche la tua partecipazione al Montreux Jazz Festival. Cosa ha rappresentato per te quella esperienza?
Nel periodo di Montreux ho composto pezzi molto giocosi e pieni di energia, era un momento in cui avevo voglia di divertirmi in questo modo e l’ho fatto. Arrivavo da anni di programmi televisivi, registrazioni, avevo dovuto seguire regole, esibirmi in performance perfette e tutto questo cominciava ad andarmi stretto, avevo bisogno di fare qualcosa in assoluta in libertà.. Quindi nel periodo precedente al Festival ho passato circa un anno a provare e registrare con il grande amico e batterista Gianluca Greco; insieme abbiamo deciso di non seguire regole e di non temere errori che, per contro, cercavamo di provocare; è attraverso l’errore che si riesce a uscire dagli schemi. Si è trattato quindi di una esperienza molto proficua a livello musicale, in quanto mi ha aiutato a sbloccarmi dagli schemi che il suonare in modo troppo strutturato impone; avevo bisogno di concedermi il tempo di sbagliare. Dopo ore e ore di follie sono usciti dei brani interessanti, tra cui “Fantasy”, il brano che poi ho avuto modo di portare al Festival con la band di Sugar Blue.
Come si è evoluto, nel tempo, il tuo modo di suonare dal vivo, alla luce di queste esperienze?
Se non ti emozioni non riesci a emozionare, questo è il primo grande principio che seguo e che mi ha permesso, negli anni, di entrare in sintonia sia con il pubblico, sia con i musicisti con cui collaboro. In un concerto live mi capita di cambiare le strutture dei brani perché, in quel momento, sento che è così che devono essere. Il pubblico sta con me, è parte di me nel concerto, lo sento e mi regolo di conseguenza; ormai i musicisti con cui suono lo sanno e mi seguono. Mentre il disco è il disco, dal vivo possono succedere delle cose, e io lascio che avvengano e che diventino la possibilità di intraprendere un viaggio attraverso nuovi percorsi.

Alessandro Ciullo alla batteria e Isabella Fabbri al sax: com’è collaborare con questi bravi musicisti, con i quali hai realizzato l’album Keep It?
Isabella, oltre che sassofonista del gruppo, è la mia compagna da due anni; è la prima volta che faccio questo tipo di esperienza e qualche momento in cui avrei preferito scindere le due cose c’è stato, ma nel complesso si tratta di una collaborazione molto interessante, dal doppio valore musicale e personale. Lei arriva dalla musica classica e dalla musica classica contemporanea e questo fa un’enorme differenza, perché comporta un approccio allo strumento completamente nuovo. Il solo fatto di utilizzare imboccature diverse, per il sax, che producono suoni diversi, rende il suono più lirico, quasi orchestrale, dando alla sonorità un impulso particolare.
Anche con Alessandro c’è un aspetto di amicizia importantissimo. Ho iniziato a suonare con lui a 18 anni, ci siamo trovati subito sia a livello personale sia musicale, insomma stima, amicizia, rispetto, qualcosa di grande. Alessandro lavora come fisioterapista e osteopata, e questo è stato molto utile, visto che ha saputo individuare e risolvere molti dei problemi di tipo infiammatorio di cui soffrivo – legati alla postura che adotto mentre suono -, e allo stesso tempo mi ha dato consigli efficaci per continuare a stare bene.
Quando gli ho proposto i miei brani ho subito sentito in lui interesse e passione e lo dimostra il fatto che si è presentato alle prove con i testi già studiati a memoria, e questa, ti assicuro, non è certo una cosa comune.
Guardando alle importanti collaborazioni che hai avuto nel corso della tua carriera, in che modo le grandi celebrità con cui hai suonato hanno influenzato il tuo percorso artistico e personale?
Molti degli artisti con cui ho collaborato mi hanno lasciato qualcosa: Marina Rei, la PFM, Celentano, solo per citarne alcuni. Ho imparato come suonare con gli altri, come rispettarli musicalmente, cosa succede durante una tournee, quando si mangia insieme, si sta nello stesso albergo, si deve convivere con gli altri componenti della band. Una grande emozione l’ho vissuta con Adriano Celentano, quando mi si è seduto vicino mentre ero alla tastiera: il brano era “Una carezza in un pugno”, e io sentivo la sua voce quasi nell’orecchio, con quel timbro particolare, e la sua incredibile presenza di fianco. Con lui si era instaurata una bella amicizia, mi cercava prima delle prove, parlavamo di tutto, le volte che faceva una trasmissione mi chiamava.
Con Terence Trent D’Arby ho sentito una forte affinità musicale, lui ha una voce pazzesca ed è capace di trasmetterti la sua bravura con l’insegnamento e l’esempio. Quando hai davanti a te qualcuno che ti dimostra che una cosa si può fare e la fa, ecco quello è il momento in cui capisci che puoi riuscirci anche tu. Terence mi ha trasmesso tanto, come persona e come artista. Tutte le mattine andavamo insieme a correre, poi stretching, poi 6/7 cappuccini e lui cominciava a parlare di filosofia, religione, spiritualità. Tutto in inglese.
Il 23 giugno sarai all’Officina della Musica di Como a presentare ufficialmente il tuo ultimo album, che è anche una sorta di viaggio, come sarà questa presentazione?
Il 23 suoneremo tutto l’album, poi farò un intermezzo con un brano in italiano che si chiama “Tu solo sai”, che è uno di quei brani che mi emozionano sempre. Prima ho registrato la musica, poi ho registrato la voce senza sapere cosa avrei detto. Il risultato mi ha lasciato sbalordito: avevo scoperto un nuovo modo di comporre. Già dopo il primo ascolto dei pezzi ero soddisfatto, ma bisogna sempre riascoltare più volte quello che si compone, per apportate tutte le sistemazioni che un lavoro ben fatto necessita.
Verso la fine del concerto aggiungerò qualche brano a sorpresa.
Damiano so che organizzi dei seminari molto interessanti, nei quali proponi un approccio di tipo globale; ci puoi raccontare com’è il tuo modo di aiutare gli altri ad avvicinarsi alla musica?
Nei seminari metto insieme tutte le cose che hanno fatto la differenza nel mio modo di apprendere la musica e di suonare. Sono cose che ho scoperto nel tempo e assorbito durante tutto il percorso fatto fino a oggi. Nessuno te le dice, queste cose, io non le ho mai lette da nessuna parte.
Il concetto del rilassamento l’ho imparato alle elementari, e questa esperienza, fatta da bambino, è stata una rivelazione; da allora è diventata il mio modo di sciogliere le tensioni, è qualcosa che ti cambia la qualità della vita: non appena senti una tensione sai anche come lasciarla andare.
Uno dei “trucchi” che ti permette di migliorare è capire fino in fondo che l’improvvisazione è legata a quello che hai in mente tu, non a quello che hai studiato o ti hanno detto altri: devi trovare la tua strada. Il mio disco, in concerto, concede molto spazio all’improvvisazione.

Damiano Della Torre, domenica 23 giugno in concerto all’Officina della Musica di Como: “Keep It”.
Lascio a Damiano, alle parole del brano “Time and Space” (D. Della Torre, S. Cereghini), la chiusura di questa intervista: Come i tempi cambiano / La verità trova la sua strada / La notte diviene giorno / È tempo di agire.
