INCONTRI: the pianoman Marco Detto

11 settembre 2019 | 19:17
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INCONTRI: the pianoman Marco Detto

di Sabrina Sigon

C’è un’alchimia tra Marco Detto e il suo pianoforte, alchimia che emerge in tutta la sua grandezza durante i concerti, come quello al Teatro Sociale di Como che l’ha visto, nel marzo scorso, suonare con Mirko Roccato al sax, Massimo Scoca al basso e Dario Milan alla batteria. Al suo attivo 17 dischi e tante collaborazioni di prestigio; pianista, compositore, uno dei jazzisti di rilievo del panorama nazionale e internazionale, tante le cose da dire su Marco Detto, tante quelle da ascoltare direttamente da lui. Visto che uno dei suoi ultimi concerti a Como è stato proprio quello de “La lunga notte del jazz” al Teatro Sociale, chiedo a Marco di questa grande serata, e quale ricordo gli ha lasciato. «È stata una serata molto bella» dice, «di cui conservo un ottimo ricordo; il pubblico era partecipe, attento e interessato, è sempre molto entusiasmante per chi suona sentire il calore di chi ascolta, è un momento di condivisione, un bel momento».

La tua esibizione di quella sera, in quartetto, è stata sin dall’inizio quella di un musicista che si muove all’interno di un gruppo ben affiatato: come si raggiunge questa dimensione del suonare insieme, come le capacità dei singoli artisti si amalgamano così bene fra loro, valorizzandosi a vicenda?

Quando si suona in un gruppo, è necessario che ci sia un’assoluta empatia tra i musicisti e una soglia di attenzione molto alta riguardo quello che accade mentre si racconta una storia attraverso le note; storia che si dipana in maniera assolutamente estemporanea: silenzi e tensioni, cambi di colore si devono susseguire in maniera naturale ascoltandosi reciprocamente. Se tutto ciò avviene in modo fluido, si farà buona musica e qualcosa sarà accaduto.

Hai cominciato con lo studio del violoncello per poi passare al piano, che hai imparato a suonare da autodidatta e diventi un grandissimo pianista: cosa ti ha avvicinato a questo strumento?

Mi sono avvicinato al pianoforte grazie a mio padre a cui piaceva la musica e suonava la chitarra a livello amatoriale; un bel giorno, quando avevo dieci anni circa, acquistò un organo elettronico della Eko e iniziò così la storia che non è ancora finita tra me e le tastiere e in seguito il pianoforte, strumento che ho studiato in maniera autodidatta.

Brani che sono energia pura, il suono di un pianoforte cristallino e voluttuoso al tempo stesso, quali le emozioni che esprimi attraverso la musica?

Per quanto mi riguarda, la composizione e la conseguente invenzione estemporanea sul tema, sono legate in maniera molto forte, e conseguenti a quello che si vive; agli incontri, alle esperienze musicali diverse, alla felicità che giunge inattesa e possiede la natura dell’attimo che lambisce la nostra vita, i momenti più dolorosi; il sovrapporsi di tutte le esperienze penso che servano a far sì che si possa suonare con coscienza quello che si è: un lavoro infinito alla ricerca del sé.

Cercare sé stessi anche dentro gli altri, quali sono gli artisti di riferimento di Marco Detto?

Sono tantissimi e in tutti generi musicali; da ognuno di loro ho appreso qualcosa, nello specifico per quanto riguarda i pianisti in ambito jazz. Il primo che ho ascoltato fu Erroll Garner, e in seguito  McCoy Tyner, Duke Ellington, Thelonious Monk, Bill Evans, Oscar Peterson, Chick Corea, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Don Grolnick, Michel Petrucciani e tanti altri.

Qual è, della musica jazz, quell’ingrediente che ne fa una musica strutturata ma al tempo stesso immediatamente apprezzabile da chi l’ascolta?

Per suonare e trasmettere emozioni a chi ascolta è necessario attivare fortemente i sensi e il sentimento, con semplicità e coscienza; anima, forza e mente devono viaggiare assieme. A coloro che si avvicinano al jazz e all’improvvisazione raccomando sempre di non suonare meccanicamente, ma essere sempre alla ricerca di sorprendere ed essere i primi a sorprendersi, nota dopo nota; per far sì che ciò accada è necessario un grande studio, in modo da potersi abbandonare con una consapevole ingenuità all’atto creativo che risulterà sempre diverso, non casuale ma voluto in quell’istante. Io non parlo dal pulpito, ma da uno studio e un lavoro su me stesso che non avrà mai fine.

Oltre ai tuoi dischi, importanti sono state anche le tue collaborazioni: nel 1994 quella con Palle Danielsson e Peter Erksine per l’album “La Danza Dei Ricordi”, nel 2000 vieni chiamato da Eddie Gomez a suonare nel suo gruppo con Lenny White, sostituendo McCoy Tyner e Chick Corea nel Festival Internazionale di musica classica e jazz sull’isola d’Elba. Cosa ti ha dato suonare con questi grandi artisti e cosa hai dato a loro?  

Suonare con Palle Danielsson e Peter Erskine nel 1994 e, nel 2000 e 2001, con Eddie Gomez, Lenny White e Jeremy Steig è stato un grande onore, oltre a essere un’esperienza che mi ha arricchito tantissimo; cosa ho dato loro non saprei dire, ricordo che apprezzavano il mio senso della melodia nel comporre.

Qual è la storia che racconti attraverso il tuo ultimo album?

Nel mio ultimo lavoro “Il Ricordo di Me”, con Marco Ricci e Tony Arco – ho inciso otto mie composizioni e tre standard – racconto e suono sempre quello che vivo: il ricordo di me, la memoria che è poi quello che sono in questo fugace passaggio.

marco detto

Marco Detto suonerà a Como, nell’ambito della manifestazione AcComodatevi per l’evento organizzato da Notasunota Scuola Di Musica, venerdì 13 settembre, in piazza Grimoldi, primo set alle 19.00 e replica alle 20.30, in un concerto di piano solo che farà apprezzare i suoi brani originali insieme ad altri standard rivisitati.

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