Lario e dintorni nell’anno Mille. Cinque luoghi medioevali da visitare




Mille e non più mille, secondo una teoria ottocentesca l’approssimarsi dell’anno Mille sarebbe stato caratterizzato da diffusi terrori per l’imminente fine del mondo preconizzata da Gesù Cristo con la famosa frase contenuta in alcuni vangeli apocrifi. Oggi questa teoria è caduta in discredito, così come la fama di età buia attribuita al Medioevo per lungo tempo visto come età di ignoranza e fanatismo dove si praticava lo ius primae noctis, si torturavano le donne con cinture di castità, si credeva che la terra fosse piatta (questo è sopravvissuto fino ad oggi), e, naturalmente, si attendeva la fine del mondo per l’anno Mille. Gli storici affermano che niente di tutto questo corrisponde al vero, semmai il buio del Medioevo è quello della scarsità di documentazione sui secoli intorno al 1000 dc. Sappiamo. però, che tra il X e l’XI secolo due re germanici passarono da Como nello loro discesa in Italia: Ottone I di Sassonia e Federico I il Barbarossa. A cavallo dei loro destrieri e percorrendo strade maestre, i condottieri e i loro seguiti lasciarono tracce ben visibili ancora oggi.
E allora eccoci pronti per partire, per un piccolo itinerario medievale che ci porterà a ripercorrere cinque dei monumenti storici importanti dell’epoca e, in parallelo, cinque modi di dire che, non tutti lo sanno, arrivano proprio da quei secoli bui che così poco conosciamo.

Ecco Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa. Il soprannome gli derivò dal fatto che, abituato alle Crociate, portava sempre la barba; cosa che, a quei tempi, per un personaggio di rango era piuttosto raro. Ad averla erano solitamente i santi, i penitenti e gli eremiti, oppure i pellegrini e i militari. I re, invece, da secoli preferivano seguire il modello degli antichi e sbarbarsi perfettamente, visto che il volto glabro era indice di distinzione e nobiltà. Il giovane Federico prese questa abitudine in Terrasanta, sia per la vita da soldato che condusse, sia stando a contatto con musulmani e i bizantini, per i quali questo era un tratto distintivo. Ed è a lui che pensiamo, quando guardiamo la torre del Castel Baradello, simbolo medievale per eccellenza di Como, a cui è titolata la rievocazione annuale del Palio. Tutte le sere, grazie all’illuminazione che la valorizza, la torre del castello ci guarda dall’omonimo colle, dal quale, una volta saliti, si può godere di un bel panorama che spazia su Como, sulle alpi e sulla pianura padana. E proprio il massiccio torrione, che poggia le fondamenta sulla roccia ed era anticamente adornato da merli di tipo guelfo, è la parte meglio conservata del castello. Delle altre strutture è stato possibile ricostruire la planimetria grazie ai recenti interventi di rivitalizzazione del complesso, e sono: la cappella di San Nicolò, nella quale la tradizione vuole sia stato seppellito Napo Torriani, anche se non sono stati ritrovati reperti ossei durante i lavori; una torre quadrangolare, probabilmente usata come alloggio del castellano, della stessa epoca della cappella; una cisterna coperta a volta, il locale macina e il locale forno, di epoca viscontea, gli ambienti per l’alloggiamento di truppe e il magazzino delle vettovaglie.

“Ma allora parlo arabo!”. Per secoli, in tutto il Mediterraneo, la lingua degli imprenditori fu l’arabo, con tutta una serie di termini che, all’inizio sconosciuti, sono ancora oggi nel linguaggio corrente. Come, ad esempio, magazzino “makhazin”, ma anche mercato “bazar”, ragazzo “raqqas”, taccuini “taqwin”. Sono davvero molte le parole di origine araba che, dal momento in cui ci svegliamo, usiamo ogni giorno, senza sapere che arrivano da molto lontano.
Scendendo in città possiamo trovare molti edifici religiosi, che furono costruiti nella Como tra il 1000 e il 1100; come ad esempio la chiesa di Sant’Abbondio – con un ricco e pregevole ciclo di affreschi trecenteschi –, mentre invece a San Carpoforo, già esistente (fu la prima cattedrale comasca), venne annesso il monastero e la collegiata di San Fedele – in cui sono conservate le reliquie del martire Fedele, traslate dal lago di Mezzola a Como nel 964 con una solenne processione capeggiata dal Vescovo . La datazione della costruzione si può far risalire al 1120 circa ma pare che lo splendido complesso fosse stato iniziato molto prima di quella data. Tra le antiche chiese di Como, S. Fedele è certamente quella che per architettura offre il più grande interesse. Nessuna chiesa in Italia offre un tipo architettonico uguale, per trovare costruzioni che le assomiglino occorre andare fino alla regione renana, a Colonia per l’esattezza. Sull’area dell’antica basilica di S. Maria Maggiore sorse, invece, a partire dalla fine del XIV secolo e fino al XVII secolo, il Duomo, sulla cui facciata risalta la statua di Plinio il Vecchio. Vista la quantità di monumenti che offre la città di Como, con un paio d’ore a disposizione la cosa migliore da fare sarebbe mettersi nelle mani di una brava guida turistica che, oltre a illustrarceli, potrà raccontare tanti aneddoti interessanti che li riguardano.

“Mettersi nelle mani di qualcuno”. Il modo di dire nasce dal giuramento di fedeltà del vassallo al suo signore. E da una cerimonia specifica, nata in epoca carolingia. Con la “Immixtio manum”, la “immissione delle mani”, il vassallo metteva le sue mani in quelle del feudatario. Così, attraverso un rapporto personale, i “fidelis” erano legati al sovrano.
Per spostarci da Como e andare sul lago possiamo prendere la Via Regina, che la tradizione popolare attribuisce alla Regina Longobarda Teodolinda, ma sarà davvero così? Intanto raggiungiamo, con questa strada, il paese di Ossuccio a circa 25 Km. da Como, tappa rilevante del nostro percorso. Ad attestare la sua importanza, sin dall’età romana, troviamo un’ara votiva del II-III secolo d.C. conservata nella Chiesa di Sant’Agata di origine romanica. Il Comune comprende alcune frazioni allineate lungo la riva ove si snoda l’antica strada Regina, e ogni località ha la sua chiesetta romanica. Con una bella passeggiata raggiungiamo l’abbazia di S. Benedetto in Val Perlana, un tempo nota come S. Benedetto al Monte Oltirone, un’ex-complesso conventuale benedettino situato in mezzo ai boschi che sovrastano l’abitato di Ossuccio. L’abbazia, che comprende una chiesa in stile romanico, un campanile e alcune strutture appartenenti a quello che era il monastero, è adagiata sul versante meridionale del monte Galbiga, a circa 800 mt. di altitudine, alla confluenza di due valli tributarie del torrente Perlana da cui prende il nome la valle. Gli edifici si presentano con murature a vista, realizzate con conci squadrati di pietra di in roccia calcarea locale, detta pietra di Moltrasio, secondo le tecniche tradizionalmente attribuite all’opera dei maestri cumacini. Le coperture sono a tetto con manto in lastre di pietra. Torniamo sulla Via Regina, strada che, nonostante la tradizione attribuisca alla Regina Teodolinda, deve il suo nome all’aggettivo latino REGIA: così infatti erano chiamate dai romani tutte le vie imperiali. Con il tempo questo appellativo si trasformò in Regina. Per ricordare, quindi, regine, dame e nobildonne del medioevo, ecco il terzo modo di dire che ci arriva da quei secoli lontani:

“Essere di manica larga”. A quei tempi, infatti, la manica era la testimonianza visiva dell’opulenza di chi la indossava. Le maniche dei vestiti erano applicate agli abiti e si potevano staccare per essere lavate – era la parte che si sporcava più facilmente – e per meglio dare l’idea di un guardaroba rinnovato. Durante le famose “giostre”, le dame premiavano il vincitore lasciandogli in pegno le loro maniche ingioiellate.
Proseguendo per la Val Menaggio e troviamo Carlazzo, un piccolo centro situato a 481 mt. di altitudine, immerso nel verde delle pendici sud-occidentali del Monte Pidaggia. Il Lago di Piano rientra quasi interamente nei confini comunali del paese. Rispetto ai comuni limitrofi, il territorio di Carlazzo è, infatti, molto esteso e comprende anche la Piana di Porlezza, i centri di Gottro e di San Pietro Sovera e la frazione di Bilate, dove oggi si trovano solo poche stalle. Il suo nome deriva da un toponimo romano che significa “Castrum ratii“, cioè castello di fuoco, ad indicare che il paese fu sede di una torre per segnalazioni. Fu possesso degli arcivescovi di Milano e nel 1240 passò sotto la giurisdizione di Como, in quanto appartenente alla Pieve di Porlezza, di cui seguì le vicissitudini politiche come altri centri della valle. I resti del castello. Il castello di Carlazzo o Castel San Pietro si trova sulla collina nei pressi del Lago di Piano. Fu edificato in un luogo strategico, situato all’imbocco delle strade che conducono in Val Cavargna e in Val di Rezzo. Era costituito da una cerchia di mura con torri e porte d’ingresso, che racchiudevano la zona più alta del paese, che fungeva a sua volta da rifugio in caso d’attacco esterno. Oggi si conservano i resti delle mura, una casa torre con sottopassaggio e alcune case arroccate che, con un po’ di fantasia, possiamo immaginare illuminate, la sera, da candele e lampade a olio. La rocca subì numerosi attacchi durante la guerra decennale tra Como e Milano (1118-1127) e ciò che è sopravvissuto lo deve alla possanza dell’edificio.

“Il gioco non vale la candela”. Questo modo di dire di origine medievale si diffuse rapidamente tra i giocatori d’azzardo, per indicare partite in cui si era perso molto denaro o nelle quali le vincite erano state così basse da non coprire nemmeno la spesa – per le classi sociali più basse, allora, davvero considerevole – per pagare la candela che aveva illuminato la serata.
Infine torniamo verso Como, prendiamo la via Napoleona e, una volta arrivati in Piazza Camerlata (da Cà Merlada, ovvero casa dotata di merli, probabilmente in riferimento al vicino Castello Baradello), svoltiamo a sinistra e prendiamo la strada per Cantù. Una volta arrivati troviamo, in cima a un colle presente nell’area urbana della città, il Complesso Monumentale di Galliano, che comprende la basilica di San Vincenzo e il battistero di San Giovanni Battista. Siamo di fronte, a questo punto, a uno dei più importanti monumenti dell’arte romanica lombarda che appartiene al periodo altomedioevale. La facciata della Basilica di San Vincenzo è semplice e priva di elementi decorativi, con la muratura formata da grandi ciottoli a vista. Poche le finestre, poste nella zona centrale, la muratura è in pietre grezze, con abbondante malta. Sul lato settentrionale della navata centrale ci sono otto finestre, quattro delle quali alternativamente otturate.

Nel sito esisteva un edificio sacro dedicato a san Vincenzo di Saragozza con annesso forse un battistero. Nel X secolo si iniziò a ricostruire la chiesa: a questo periodo risalgono le navate su cui Ariberto da Intimiano, intorno al 1000, fece innestare l’abside e la cripta. La Basilica fu riconsacrata da Ariberto, allora suddiacono e “custode” del sacro edificio (probabilmente ne era il proprietario per tradizione familiare). Una riprova sarebbero le epigrafi graffite sotto gli affreschi dell’abside che ricordano la morte del padre, del fratello e del nipote. Divenuta chiesa pievana e sede del Capitolo dei Canonici, per alcuni secoli la basilica di San Vincenzo godette particolare affetto tra i Canturini che donarono forzieri, terreni ed altre proprietà, senza temere di restare al verde: il lascito più antico risale al 1284.
“Essere al verde”Secondo alcuni studi, il modo di dire deriva da un’antica usanza medievale, che consisteva nel far portare un berretto verde ai falliti in segno di pubblico scherno. Il verde era tradizionalmente il colore del tessuto che rivestiva internamente i forzieri, le cassette e la fodera della borsa appesa alla cintura in cui si teneva il denaro monetato. Quando si arrivava a vedere il colore delle fodere, significava che il denaro scarseggiava.
Sono tanti i modi di dire che, usati nel nostro linguaggio comune, riportano a quei tempi e, insieme a loro, anche un numero considerevole di invenzioni che oggi utilizziamo nella vita di tutti i giorni senza saper da dove arrivino; eccone alcune, citate da chi seppe raccontare di quell’epoca attraverso saggi e romanzi come pochi altri:
“Infinite sono le invenzioni medievali che ancora usiamo come se fossero cosa del nostro tempo: il camino, la carta (che sostituisce la pergamena), i numeri arabi (adottati nel XIII secolo con il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci), la partita doppia e, con Guido d’Arezzo, il nome delle note musicali; qualcuno elenca anche bottoni, mutande, camicia e guanti, cassetti dei mobili, pantaloni, carte da gioco, scacchi, i vetri alle finestre. Nel Medioevo iniziamo a sederci a tavola (i Romani mangiavano sdraiati), a usare la forchetta, e appare l’orologio a scappamento, diretto antenato dei nostri orologi meccanici”.
(Umberto Eco)