Paolo Rossi, il calciatore dal volto sorridente

11 dicembre 2020 | 15:32
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Paolo Rossi, il calciatore dal volto sorridente

Paolo Rossi è morto a 64 anni il 9 dicembre a causa di un tumore ai polmoni. In questo tragico 2020 ci ha lasciato anche “Pablito”, l’eroe dell’Italia Campione del Mondo 1982, con Diego Maradona uno dei grandi del calcio del ‘900. Agli albori della carriera di Paolo Rossi c’è anche una stagione no molto fortunata al Como dove scese in campo solo sei volte.  Maurizio Fierro, scrittore appassionato di storie sportive che ci aveva regalato un piccolo, bellissimo, ritratto di Maradona, ora dedica a Pablito questo ricordo

paolo rossi

Madrid, 11 luglio 1982

«Guardavo la folla, i compagni, le bandiere scivolare ovunque, e dentro sentivo un fondo di amarezza. “Adesso dovete fermare il tempo, adesso,” mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito…» Paolo Rossi.

Se si chiede a un italiano cosa faceva nei giorni del Mundial di Spagna, tutti sapranno raccontare nei dettagli una loro storia speciale. Speciale come quella di Paolo “Pablito” Rossi, il calciatore dal volto sorridente.

È il 1982. “Mefisto”, di István Szabó vince l’Oscar, in Polonia viene arrestato Lech Wałęsa, Gabriel García Márquez, riceve il Nobel, il Papa sopravvive al suo secondo attentato e in Spagna vengono condannati a trent’anni gli ufficiali che l’anno prima avevano organizzato l’assalto all’assemblea dei Deputati. Già: la Spagna, una nazione impegnata in una lenta transizione democratica e che in quell’anno organizza il suo primo Mondiale. Frammenti di un’epoca scomparsa, un’èra che ci è passata accanto senza quasi accorgersene. L’impegno degli anni Settanta è un ricordo, e il rivoluzionario e la mistica del collettivo hanno lasciato la scena al paninaro, rappresentazione plastica di quell’edonismo autoreferenziale che sarà la cifra del decennio. Mentre l’Italia è ancora sconvolta dalla misteriosa morte del “banchiere di Dio” Roberto Calvi e dal brutale assassinio del deputato palermitano Pio La Torre, un giovane calciatore fa sognare i tifosi con i suoi gol e le sue prodezze. Il suo nome è Paolo Rossi, e il rettangolo verde è il suo palcoscenico. Paolo Rossi: un nome comune per un ragazzo comune, quando il calciatore era ancora uno come tanti, solo più bravo con la palla fra i piedi, e non l’atleta vitaminizzato ai limiti dell’ipertrofia che calca gli attuali terreni di gioco. Paolo Rossi, il ragazzo sorridente che tutte le mamme vorrebbero avere come genero, l’aedo di un Paese che adotta quel volto da bravo ragazzo per esprimere il proprio storytelling; un Paese, quell’”Italia da bere”,  magari squassato da tragedie annunciate e prigioniero delle proprie ataviche contraddizioni, ma non ancora incanaglito, quando ancora il cinismo non aveva ammorbato l’aria con i suoi miasmi, la bontà non era solo mieloso buonismo e le decisioni non erano indotte da qualche algoritmo.

Pur con una carriera breve, la corsa del Signor Rossi alla notorietà e alla leggenda è costellata da tante serpentine. Dal pensionato giovani di Vilar Perosa, ai tre interventi al menisco in altrettanti anni; dalla breve stagione al Como, ai trionfi dell’”Olanda in maglia biancorossa”, ovvero quel Lanerossi Vicenza capace di stupire per il suo gioco spumeggiante e di competere per lo scudetto con la Juventus nella stagione 1976/77, portando ben visibile sulle magliette la R maiuscola, simbolo del Lanerossi, il lanificio Rossi di Schio di proprietà di Eugenio Giuseppe Luraghi, che nel 1953 rileva la società calcistica diventando la prima azienda italiana ad acquisire una squadra mettendone a bilancio i calciatori; dall’esaltante avventura nel Perugia dei miracoli, al dramma del Totonero e del calcio scommesse, con conseguente stop di due anni; e poi ancora la Juve di Boniperti e Trapattoni, infine il Milan e il Verona. Ma soprattutto la Nazionale.

Il suo debutto nel Mundial del 1978 è da leggenda. Lì, nel gelo dell’inverno argentino, nasce il mito di Pablito (è un giornalista del “Gazzettino”, Giorgio Lago, a dargli il fortunato soprannome), un calciatore in possesso di know how calcistico e soft skills pedatorie capaci di esprimere il giusto mix tre e concretezza creatività. A Mar del Plata nasce la fraterna amicizia con Antonio Cabrini e quella paterna con Enzo Bearzot, quasi un secondo padre, che lo convoca a sorpresa per il Mondiale spagnolo, dopo la squalifica e la tribolata ripresa dell’attività agonistica il 3 maggio 1982. È la rinascita del calciatore e del signor Rossi, un uomo che soffre e torna a essere Pablito; la vita come un romanzo, il Don Chisciotte che in Spagna sconfigge i mulini a vento ritrovando l’amore della sua Dulcinea Italia; all’inferno e ritorno, morto due anni prima nelle aule di tribunale e ora rinato a nuova vita, perché come scrive Mario Soldati “Solo dalle macerie si può rinascere. Pablito Rossi è rinato”. E poi il Sarrià di Barcellona, l’Argentina di Maradona sconfitta e il Brasile ad attenderci, in quello che sembra quasi un appuntamento col proprio destino. E allora lui diventa il carrasco della selecao, “l’artista che ha ripreso il pennello”, come scrive Candido Cannavò su la Gazzetta dello Sport; tre reti al Brasile… perché poi, cosa significa essere al posto giusto nel momento giusto all’appuntamento con la palla, se non saper cogliere l’attimo propizio che il Dio del calcio ti concede per entrare nell’immaginario di un Paese?

Le ramblas diventano tricolori, gli italiani sono in delirio mentre un popolo, quello brasiliano, versa in lacrime per quella che il famoso giornalista del quotidiano “O Tempo” di Belo Horizonte, Chico Maia, al secolo Francisco Barbosa Duarte, definirà “la Tragedia del Sarrià”. (Un episodio simile era accaduto il 16 Luglio del 1950, quando allo stadio “Maracana” di Rio De Janeiro, il Brasile era stato sconfitto per 2-1 dall’Uruguay di Ghiggia, Schiaffino e del mitico capitano della squadra, “el Negro jefe”, il capo nero, al secolo Varela, in una epica finale di Coppa del Mondo, con susseguenti suicidi e lutto nazionale). E ancora, la semifinale vinta contro l’ostica Polonia orfana di Boniek, e finalmente la finale, dodici anni dopo l’Atzeca di Città del Messico. Madrid, con Sandro Pertini che si materializza nell’albergo che ospita gli Azzurri alla vigilia della finalissima e che siede in tribuna insieme a re Juan Carlos, donna Sofia, e naturalmente al cancelliere della Germania Federale Helmut Schmidt, perché c’è la Germania Ovest da battere. E la battiamo. Sfianchiamo i tedeschi per circa un’ora e poi li trafiggiamo con tre stoccate mortali. Ancora Paolorossi, come lo chiama lo speaker dello stadio, infine Altobelli. In mezzo c’è il gol di Tardelli; il suo l’urlo liberatorio è l’urlo di un intero paese, e i suoi occhi una sorta di iconografia di quel Mondiale. Sandro Pertini in piedi grida “non ci prendono più”, e Nando Martellini lancia il suo iconico “campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”. Infine l’abbraccio degli italiani, con il Paese che si è fermato, riscoprendo i valori dell’unione e dell’amicizia, perché Paolo Rossi (che alla fine di quella magica annata si aggiudica il Pallone d’oro), el hombre del mundial, in trionfo è tutti noi. “Paolo Rossi era un ragazzo come noi” canta Antonello Venditti in “Giulio Cesare”, un ragazzo che ha lottato per diventare quello che era destinato a diventare. E ha lottato fino alla fine, Pablito, prostrato e afflitto da una malattia carogna. “Vai, lasciati andare. Hai sofferto troppo. Porta via tutto il mio amore e quello dei figli”, gli ha sussurrato l’adorata moglie Federica Cappelletti prima che il suo Paolo chiudesse gli occhi per sempre.

Ciao, Paolo. Ti ricorderemo con quel volto che sorride. Un volto gentile, un volto che, contemplandolo, è come un ritorno all’innocenza. Un volto che sarà custodito per sempre nella memoria condivisa di una nazione.

paolo rossi