Eugenio Gentili Tedeschi “Razionalismo”

di Davide Fent
Eugenio Gentili Tedeschi comincia la propria attività professionale nell’immediato dopoguerra, partecipando pienamente al fermento della ricostruzione e lavorando al fianco dei grandi nomi dell’architettura lombarda e italiana. Lavora per tre anni nello studio di Gio Ponti, conosce Giuseppe Pagano nel 1941, incontra Le Corbusier a Parigi nel 1949, nella sua abitazione in rue Nungesser-et-Coli. Partecipa all’organizzazione del CIAM di Bergamo del 1949 e diventa collaboratore di «Casabella». Per diversi anni, fino al 1968, è membro del Comitato direttivo del Centro Studi della Triennale di Milano per la quale allestisce diverse Mostre.
Dopo l’esperienza universitaria a Roma con Vittorio Morpurgo, sceglie di confermare e continuare il suo impegno nell’attività accademica, che cesserà solo a metà degli anni ’80. Tra le sue ultime opere occorre ricordare l’ideazione e la promozione del progetto, poi completato dall’architetto Morpurgo, per il “Binario 21”, memoriale della Shoah realizzato presso la Stazione Centrale di Milano, nel punto dal quale partivano i treni diretti ai campi di sterminio. Si è dedicato nel lavoro, come nell’insegnamento, a sostenere un’idea di progetto che concepisce l’architettura come uno strumento rivolto a creare le condizioni per un progresso sociale e civile, nel momento in cui sappia cogliere le necessità impellenti che la storia propone, trovando, nell’organizzazione dello spazio per l’uomo, alle diverse scale, le risposte adeguate alle attese del presente.

Gentili impiega più di dieci anni a scrivere il libro, che presentiamo, che rappresenta la riflessione finale sul Razionalismo, e sulla sua personale esperienza di protagonista del movimento razionalista europeo. I primi appunti, scritti a Cracovia, sono datati 1° luglio 1992, allora, ha 76 anni. Si trova in Polonia perché ha raggiunto la sorella, Gabriella, che è ricoverata nell’ospedale locale, colpita da un infarto. Si è recata, con alcuni amici, a visitare i luoghi della Shoah, e proprio ad Auschwitz, poco dopo aver lasciato il campo, ha subito l’attacco cardiaco.
Il testo è stato completato nel 2003, due anni prima della sua morte. Gentili ha scritto diversi libri nella sua vita: dai saggi di architettura, ai testi per la didattica, fino a raccolte di scritti più personali, autobiografici. Ha continuato a scrivere a mano, fino all’ultimo, riservando l’uso del computer alla sola attività professionale.
Abituato da sempre a svolgere un’intensa attività professionale e intellettuale, secondo i tempi e i modi dell’“urgenza”, caratteristici di questa nostra epoca, decide, questa volta, di dedicare, verrebbe da dire dedicarsi, gli ultimi anni a un libro, uscito con il titolo <<Razionalismo >> (a cura di Andrea Savio, Jaca Book, pag. 160, euro 20). In questo suo lavoro saggistico, un accenno a parte merita Giuseppe Terragni, esponente di spicco del gruppo comasco a cui hanno fatto capo architetti, pittori, filosofi e artisti, che si autopresentavano con il richiamo ai “Valori primordiali”, intesi come momento fondamentale in cui una massa di idee si coagula in un abbozzo di sistema. L’apparizione del primordio emerge come dato fondativo di una cultura materiale, quella dei Maestri Comacini: in essa le attività di utilizzo delle risorse locali, la pietra, il legno, si identificano nell’organizzazione razionale dello spazio e del territorio, come sistema o linguaggio. È una particolare aggregazione di pensieri attorno a un’idea della modernità che assimila cadenze neoplastiche ed elaborazioni cubiste, come nell’opera degli architetti, o individua una chiave di lettura universale nella morale cattolica, come afferma Cattaneo nei dialoghi del suo libro <<Giovanni e Giuseppe>>.
A Terragni si deve quello che la critica internazionale ha riconosciuto come il capolavoro del razionalismo mondiale, la Casa del Fascio di Como: Basterebbe infatti porta a confronto con un’altra notissima opera, la Villa Savoye, di Le Corbusier, con la quale presenta alcuni dati in comune. Si tratta anzitutto di due lavori quasi coetanei – la villa è del 1930, il palazzo, del 1933 – e che si caratterizzano per essere impostati su una pianta perfettamente quadrata.
Ma mentre il quadrato della Villa si anima delle straordinarie invenzioni spaziali e degli objets à réaction poetique, la costruzione di Terragni procede secondo una modulazione ripetitiva, gli spazi interni allineati rigidamente, il tutto caratterizzato dall’uniforme rivestimento marmoreo che assicura il dovuto prestigio a questa immagine del potere.
Queste note sull’attività dei razionalisti non possono ignorare il riscontro con un momento importante, quello in cui ha preso avvio in Italia un sistema di programmi per l’edilizia residenziale sovvenzionata, sotto le sigle dell’INA-Casa, del Piano Fanfani, della Gescal. Nell’attuazione delle normative riferite a valori quantificabili – superfici, volumi, distanze, rapporti funzionali, illuminotecnici – la maggioranza dei progettisti ha cercato ispirazione nel disegnare anche consistenti brani di città in una vena neorealista, e solo più raramente in una trascrizione di ricerche su temi quali l’industrializzazione edilizia, la componibilità delle tipologie, l’integrazione con l’attrezzatura domestica industriale. Esisteva indubbiamente una “scuola romana”, caratterizzata da solida professionalità e da notevole ricchezza di disegno: importanti figure si erano susseguite negli anni a rappresentare questo e quel sottogruppo, e si trattava di personaggi come Saverio Muratori, o Ridolfi, Foschini, Saul Greco, Piccinato, Libera e via dicendo, per non tacere di Piacentini, grande e intramontabile padrone della piazza. La capacità di comprensione della realtà e della Storia è sempre stata considerata da Gentili come strumento primo dell’azione progettuale di un architetto. Amava ricordare, che basta saper riconoscere una coltivazione di Gelsi per pensare alla Via della Seta, e per capire che intorno a quel luogo, a quelle coltivazioni, sono inevitabilmente legate delle forti tradizioni di produzione tessile.
C’ è la congiunzione con <<Il manifesto dell’architettura futurista>> lanciato a Milano da Antonio Sant’Elia l’11 luglio 1914, in occasione della sua mostra della «Città Futura» alla Famiglia Artistica, si apriva con questa dichiarazione: “Dopo il Settecento non è più esistita nessuna architettura. un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile, usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamato architettura moderna. la bellezza nuova del cemento e del ferro vi vien profanata…”.
Non è ora il caso di illustrare quale sia stata l’importanza teorica del futurismo, che rappresenta in fondo un tentativo di evasione dalle estetiche positiviste dell’ottocento; ma conviene stabilire che nelle idee e nei progetti di Sant’Elia sono chiariti i principi fondamentali di quella che sarà, in Europa, a distanza di anni e contro l’avversione di un mondo a cavallo fra due epoche, la nuova architettura.
Questi principi si possono sintetizzare così: abolizione del decorativismo di stili sovrapposti; razionalità della fabbrica, per la corrispondenza dello scopo con la forma; equilibrio plastico della massa con la pianta; utilizzazione dei nuovi materiali costruttivi.
L’ architettura europea ha talmente fatto suoi questi principi, che non la si potrebbe pensare contenuta in altre regole. Ma il valore di Sant’Elia non è, in fondo, di avere intuito e disegnato un sistema nuovo di costruzione: consiste piuttosto nel modo in cui egli ha sentito l’impostazione del problema di un’architettura moderna e il fine a cui essa è indirizzata. Come in tutti i precursori, in lui contano più i motivi dell’azione che l’azione stessa.
Questo progetto di Sant’Elia è un’anticipazione dei grattacieli a terrazze, nel tempo in cui gli americani costruivano i grattacieli gotici o veneziani di Cass Gilbert; o quest’altro è una sistemazione prodigiosamente «moderna» di una città nuova, pensata nella Milano borghese a cui parve convenire soltanto lo stile della nuova stazione: ma queste, e tante altre anticipazioni, resterebbero la fatica solitaria e melanconica di uno sterile sognatore, se non fossero sorrette e giustificate da quello spirito nuovo che ha creato l’Europa dei nostri giorni.