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SE03-01 Giorgio Gaber – Sexus et Politica – 1970 – Il tavolo d’avorio

27 aprile 2022 | 09:54
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Cristiano Paspo Stella, il cantautore, Massimiliano Pini, il cuoco clandestino e Piergiorgio Ronchi, il beer sommelier, tornano in cucina per la seconda stagione di COOKIN’ MUSIC. Le materie prime sono sempre di grande qualità: musica, food culture e birre dal mondo

Un po’ di sincerità è una cosa pericolosa, e molta sincerità è una cosa assolutamente … fatale. 

                                                                                                                                                                       [Oscar Wilde]

Partiamo con una precisazione: questo è l’unico album di Gaber dove lui è solo interprete e non autore; infatti tutte le canzoni del disco sono scritte da Virgilio Savona del Quartetto Cetra. Savona per i testi si ispirò agli scritti di autori della letteratura latina e l’album venne registrato al Sound Studio della Vedette a Cinelandia (Milano) nel febbraio 1970; altra cosa particolarmente interessante è la mescolanza delle immagini monocromatiche della copertina ad opera di Domizia Gandolfi.

Sexus et politica è da tutti riconosciuto come un disco anomalo pur nella ampia e variegata discografia gaberiana; tanto quanto viene considerato strano e particolare il sodalizio con Savona. Infatti Gaber non si limita alla esecuzione, ma partecipa pienamente alla costruzione del progetto (ancorchè, come dicevamo prima, i testi sono del solo Savona).

I due si concentrano sul creare una antica romanità che fosse credibile, quasi attuale (per il periodo di uscita del disco) e non troppo straniante; tutti gli arrangiamenti degli strumenti acustici sono funzionali ai brani senza avere la pretesa di creare delle atmosfere musicali tipiche della Roma antica con le sue ritmiche costanti e ripetitive.

Per inciso pur essendo nella antichità già presenti consonanze e dissonanze – come negli scritti del filosofo Boezio – dobbiamo aspettare intorno all’anno mille per la polifonia e un altro paio di secoli per arrivare alla notazione musicale. Oh! Ma quante ne sappiamo!!! (n.d.r.)

C’è, poi, da considerare che il disco è prodotto proprio nella fase transitoria del percorso artistico di Gaber; infatti da lì a poco ci sarà il suo definitivo approdo al teatro canzone.

La peculiarità del disco è proprio quello di avere preso i versi degli autori antichi ri-cantandoli in stile contemporaneo; e proprio in questi brani si inizia a percepire quel passaggio recitativo, che poi diventerà marcatura di Gaber stesso negli anni successivi.

Questo pur considerante un po’ straniante (ma decisamente interessante) il parlare di tematiche prese da testi pre-Cristiani, quindi lontane da un frame contemporaneo (o meglio degli anni ’70).

Il binomio amore e morte diventa una dicotomia, in cui della morte si parla con leggerezza, senza mai banalizzarla, ma restituendola a quel suo ruolo di evento naturale. Un netto contrasto rispetto all’idea di rimozione – e anche di oblio o ancora peggio di tabù – in cui la società contemporanea e i suoi autori, l’hanno relegata.  Una scomodità della quale è meglio non parlare.

Anche il tema dell’amore, ma quello sessuale, viene affrontato, anch’esso senza i veli del bigottismo e in modo del tutto naturale. Il sesso come naturale parte di una società.

Tanti e diversi sono i temi presenti nei testi delle canzoni: la critica feroce e ironica della politica, lo sberleffo ai costumi, la banalità del finto pacifismo (siamo comunque nel decennio della guerra del Vietnam) e come ulteriore completamento il supporto di testi e note che accompagnano e spiegano con intelligenza, curiosità e originalità l’approccio dei due autori, facendo diventare questo disco-progetto trasversale rispetto a tempi, epoche e costumi.

 Cucina

La tavola degli antichi doveroso ricordare il testo – fondamentali sul tema, sono di parte, ma va riconosciuto – di Valerio Nico, edito da Mondadori nel 1989 del quale riprendiamo una bella recensione, nell’anno di uscita del libro di Lidia Storoni da Repubblica e dal titolo “a tavola con Locullo”.

Degli antichi ormai possiamo dire di sapere tutto: dalle loro abitudini, alle loro attività quotidiane, delle arti e degli spettacoli, dei loro scritti, … però poco si sa, o poco si parla della loro alimentazione, nonostante proprio ai romani si fa risalire il primo testo (vero) di cucina: il De re coquinaria di Apicio. Valerio Nico però nel suo libro dell’89 sopperisce a questa carenza; dietro un tono, a volte scherzoso, ci ritroviamo con un libro di rigorosa preparazione scientifica. Un libro che è fatto, soprattutto di scoperte, infatti non erano presenti ingredienti che venivano dal nuovo mondo come caffè, cacao, tè; quasi inesistenti gli alcolici a parte il vino e la birra, come pure erano assenti melanzane, carciofi, pomodori e fagioli, (ingredienti tipici della cucina italiana). Però, nello stesso tempo, ritroviamo in quelle ricette un’aria famigliare.

Il libro inizia con una escursione dalla preistoria, con una popolazione umane raccoglitrice – oggi lo chiameremmo in modo modaiolo foraging – per poi approdare a preparazioni, con l’introduzione di strumenti, più elaborate; quindi ad abitudini stanziali ed alla rivoluzione agricola. Si passa al pane e quindi all’Egitto, prima con farine di farro, orzo e miglio poi, con Cerere[1], si introducono i cereali (da qui il nome). Riprese questa teniche di coltura dai romani e introdotte nelle abitudini, anche cerimoniali, dei patrizi in ricordo degli usi più antichi.

Una cucina fatta di farinate di ceci e fave, di focacce e di stiacce, con largo uso di cipolle, aglio e odorose erbe spontanee: come malva, menta, origano, timo e rosmarino. Ricette e citazioni che troviamo in Plinio, Catone e Cincinnato. L’olio – questo da sapere – arriva solo più tardi. Molte di quelle preparazioni, tipiche del bacino mediterraneo, le possiamo ritrovare nei moderni ricettari: i dolmades e il suvlaki o i biscotti di orzo che si vendono ad Atene, come a Lecce o a Otranto.

Cucina greca, medio orientale, etrusca che entra tutta nelle abitudini dei romani mescolandosi con quella autoctona dei pastori nomadi e delle tribù che si insediarono sui colli fin dal XVI° secolo a.C. Questi ed è documento dagli attrezzi rinvenuti – producevamo già il burro, sfatando il mito che fosse un alimento introdotto dai barbari, anche se il successivo utilizzo di burro nell’antica Roma fu soprattutto nella cosmetica e non nella alimentazione. Fondamentale era la produzione dei formaggi e dei derivati dei latticini; come pure l’allevamento ovino, soprattutto della pecora che oltra alla lana, forniva carne e latte. Gli ovini erano talmente fondamentali che erano considerati un oggetto per importanti scambi commerciali, non per niente pecunia, come comunemente veniva definito il denaro, deriva appunto da pecora.

Altro bene fondamentale era il sale, portato da Ostia sul Tevere o sulla via Salaria, utilizzato anch’esso per regolare i pagamenti; non per niente salario cioè lo stipendio, viene dalla stessa radicePer i rimani il cibo rientra in tutti gli aspetti della vita sia pubblica che privata, sia sacra che profana: dalle fave con cui si confezionavano i dolci dei morti, al loro utilizzo come alimento energetico – vero superfood – per i lavoratori; rientravano anche nelle cerimonie religiose, utilizzati macinati dalle Vestali nella mola salsa, (da cui deriva il termine immolare ovvero sacrificare) con cui si cospargeva il capo degli animali nelle cerimonie e negli aruspici. Sono moltissimi gli esempi di dicotomia cibo-vita.

Curioso come la salsa di olive, acciughe e formaggio: la satyra era un alimento tanto indigesta quanto saziante da questa presero il nome i componimenti poetici di genere misto detti appunto: la satira. La carne era un alimento per ricchi, specie il bollito, tecnica necessaria dato che si mangiavano solo animali vecchi quindi particolarmente duri; che necessitavano di lunghe cotture. Gli animali venivano riconosciuti per la loro capacità produttiva. Pene severissime erano previste in caso di macellazioni di animali giovani e sani. Con il passare dei secoli cambiano anche gli utensili; si introduce il testo cioè la pentola di cotto; il quartiere del Testaccio prende appunto il nome dall’enorme cumulo di cocci rotti delle anfore che venivano buttati dalle navi nel momento dello scarico.

Abbiamo citato poco e semplici esempi ma volevamo darvi qualche elemento che facesse notare il legame fatto di antiche tradizioni ed i riferimenti e le abitudini dei nostri giorni; adesso vi proponiamo un gioco… andare a cercare anche voi i vostri rimandi al passato antico.

Ecco una ricettina – facile – però dal sapore antico: il pane di ricotta. Questa ricetta la riportammo nella Cucina del CortoBio, con Marina “Zenzero” Romanò, nella prima edizione e la presentammo nella serata “Così vicini… così lontani” un seminario sulle cucine antiche, ricordo che poco dopo l’Università popolare propose un ciclo di tre incontri tematici sulla storia della cucina con le presenze emerite di Luigi Picchi (la tavola degli antichi romani), Lanfredo Castelletti (la cucina nel Medioevo) e il monumentale Rossano Nistri (per il Rinascimento). Ci sono cose che stanno nell’aria… come la Musica del resto e noi siamo Cookin’ Music.

Sciogliete 400 gr. di ricotta in un frullatore, quindi aggiungete un uovo intero, salate e aggiungete 100 gr. di farina continuando a frullare. Il composto deve rimanere tenero e appiccicoso. Acceso il forno a 180° fate un tappeto di foglie di alloro sulla piastra da forno, spruzzate olio di oliva e spargete il composto in panetti; lasciate cuocere per 25 min. Sentirete il profumo dell’alloro spargersi nell’aria; mangiate i vostri panetti tiepidi o freddi accompagnati da una salsa di formaggio all’aglio. Che godimento! O meglio: quid sit voluptatem!

[1] Divinità tutelare della terra e della fertilità.

cookin music III stagione

Birra

Veniamo alla terza protagonista: la birra. Abbiamo detto precedentemente che vino e birra erano le bevande alcooliche in uso dai romani, o meglio dalle romane, infatti inizialmente era una bevanda apprezzata molto dalle donne e poco dagli uomini tanto che lo scrittore Tacito, dopo averla assaggiata, disse che il suo sapore era grossolano e sgradevolissimo al palato; usando parole sprezzanti nei confronti della birra che definì come vino d’orzo di scarsa qualità. Povero Tacito, riconosciamo i tuoi meriti ma, qua, proprio hai toppato!

Prendiamo l’occasione per presentarvi la Padus Cervisiae di San Pietro in Cerro, provincia di Piacenza. Una giovane beer firm nata una decina di anni fa all’interno dell’azienda familiare di Alessandro Gaudenzi, che vuole rendere onore alle antiche popolazioni romane che hanno vissuto lungo il fiume Po. Nel suo catalogo sono presenti la Mater, una interpretazione nostrana delle birre di frumento belghe (bière blanche), dal caratteristico bouquet olfattivo/gustativo agrumato, molto beverina con i suoi 4,5 gradi alcolici. La placentia-padus che rimanda ai tradizionali stili birrari anglosassoni, quello delle Bitter. In realtà si tratta di una personalissima rivisitazione dello stile, descritta come birra dal profilo “leggermente affumicato, con profumo fruttato di ciliegia: un sapore unico e inconfondibile, quello terra“.

Si dice che il sapore e l’odore dei malti scottati fosse in grado di infondere nostalgia nelle antiche legioni, facendo loro ricordare la propria casa. Ad ogni sorso di birra, un viaggio nelle terre delle proprie origini (sic).

Infine la Stella Alpina, qua il rimando è all’italianissimo gruppo militare, quello degli alpini. Alcol sostenuto (7% abv), con la chiara intenzione di riscaldare l’animo di chi deve affrontare continuamente il freddo e il gelo. Si tratta sostanzialmente di una Dubbel di ispirazione belga, aromatizzata con bacche di ginepro.

Tendenza latine – purtroppo e mi permetto solo nei nomi – apprezzabili nello stile e per il gusto; questa è una beer firm di chiaro stampo italiano che, sebbene ispirandosi alle più antiche tradizioni birrarie europee, lascia spazio alla libera interpretazione e alla personalizzazione delle ricette. Una virtù che non deve mai mancare in un mestiere a vocazione artigianale come quello del birraio. Cosa, questa, che i birrai nostrani hanno capito da un pezzo.