SE03-10 Pere Ubu – The Modern Dance – 1978
Cristiano Paspo Stella, il cantautore, Massimiliano Pini, il cuoco clandestino e Piergiorgio Ronchi, il beer sommelier, tornano in cucina per la seconda stagione di COOKIN’ MUSIC. Le materie prime sono sempre di grande qualità: musica, food culture e birre dal mondo
Essere surrealista significa bandire dalla mente il già visto e ricercare il non visto.
(René Magritte)
Non so se conoscete i Pere Ubu, da Cleveland, Ohio, USA. Si formano nel 1975 per mano di David Thomas e Peter Laughner che però lascerà subito la band. Il nome lo devono ad una maschera del commediografo francese Alfred Jarry, dal nome Ubu Roi, rinominata padre Ubu, in francese Pere Ubu. Quest’opera è considerata un’anticipazione del movimento surrealista e del teatro dell’assurdo. Jarry vi mescola provocazione, assurdo, farsa, parodia e umorismo crasso e sbracato.
La Danza Moderna: con il loro peculiare garage-rock d’avanguardia, i Pere Ubu hanno rappresentato in musica tutti gli incubi della società industriale. Realizzando con The Modern Dance uno dei capolavori della new wave.
La più grande band americana degli anni ‘70 (e una delle più grandi in assoluto) come è noto, ma se non lo è ve lo diciamo noi …, deve il suo nome alla pièce teatrale “Ubu Roi” dello scrittore francese Alfred Jarry (1873-1907): un’opera caratterizzata dal gusto della satira, dalla sfrenata irruenza verbale e dalla insofferenza delle convenzioni. Quando Pere Ubu arriva a Cleveland in Ohio, intorno alla metà degli anni ’70, la sua natura di poetico ribelle si scontra con una realtà industrializzata, piena zeppa di nevrosi urbane e di paure. Il fiume Cuyahoga, che scorre pieno di rifiuti accarezzava la città sull’orlo del collasso.
L’America si era lasciata alle spalle il boom economico degli anni ’60 e stava vivendo una crisi economica che gettava nello sconforto e nella depressione anche i più fervidi credenti di interminabile età dell’oro. Furono soprattutto i giovani ad essere investiti da una noia esistenziale prossima al nichilismo più tragico. La stagione del punk nasce e cresce sull’humus di questo periodo nero, attuando un disperato rifiuto del mondo: tra crisi petrolifere e avvento dei personal computer mescolati a una nientificazione della realtà.
Cleveland diventa la città nichilista per antonomasia. Nella sua suburbia si muoveva il giovane Peter Laughner: intellettuale disilluso, poeta innamorato dell’espansione lisergica, da sempre assertore della capacità della musica di poter rappresentare le convulsioni e gli isterismi dell’uomo post-atomico; suo compagno di viaggio l’amico David Thomas. I due fondano prima la punk ensemble Rocket From The Tombs (ricordate lo sgraziato e rumoroso “Sonic Reducer”, un tributo ai Velvet Underground e agli Stooges) nella quale Thomas è il crooner in negativo; perfetta personificazione della maschera burlesca di Jarry e contraltare di Laughner, l’intellettuale.
Poi arriva Stiv Bators, che fa uscire la formazione dalla scia distruttiva e nichilista del punk per approdare a una visione più psichedelica e oltraggiosa; arrivando all’avanguardia e mescolandoci – pure – musica concreta: sono nati i Pere Ubu.
Nessun altro gruppo è andato mai più così vicino alla “concretezza” apocalittica della fine, del tramonto della civiltà e del suo “passare oltre”.
The Modern Dance (1978) diventa una collisione tra vecchio e nuovo, garage-punk (non si possono abbandonare le proprie radici) e moderna tecnologia in chiave destrutturata ed impressionista. Molti critici la definirono primitivizzazione del modernismo con il gruppo mischiava disinvoltamente funk glaciale, arpeggi morbidi e maligni, sibili, applausi e suoni sintetici… provate a sentirli a occhi chiusi è decisamente evocativo.
Pur non ottenendo grandi numeri di vendite, possiamo considerare The Modern Dance (ma in generale tutta la discografia degli Ubu) il kick-off di una serie di esperienze estetiche molto alte e che hanno influenzato una intera generazione di musicisti: dagli Husker Du ai Pixies, passando per i Sonic Youth, Minutemen, Mission Of Burma… qua la lista si allunga parecchio.
Questa è stata la capacità della band di Cleveland, il saper collegare esperienze umane tra loro distanti, tutte accomunate dal disagio del loro tempo, dal suo scorrere inesorabile verso un nulla cosmico fino ad arrivare (lontano dai silenzi) a un salvifico, finale, bagliore purificatore.
“Eppure – come scriveva Gorge Steiner – le zone oscure occupano il centro. Ignorarle significa rendere impossibile qualunque ragionamento serio del potenziale umano”
Nel Castello di Barbablù, 1971.
Cucina
Surrealismo e surrealismi: partendo dagli Ubu parliamo di cucina surrealista; impossibile non citare il ritrovato ricettario di Gala; un libro sfuggito dalle grinfie e dall’oblio del tempo; che rivede la luce grazie alla Taschen.
Les Dîners de Gala è a tutti gli effetti un libro di cucina nel quale Salvador Dalì rende omaggio con fini giochi di parole alla sua musa prediletta. Ricettario a tutti gli effetti, diviso in capitoli-portate; non solo, la bizzarria dei piatti viene sempre accompagnata da riflessioni e vaneggiamenti dell’autore. A completare il tutto illustrazioni grottesche.
«la mandibola è il nostro migliore strumento per afferrare il sapere filosofico».
Eccovi un piccolo assaggio… uova vecchie di un migliaio di anni, cotolette di vitello ripiene di lumache, pasticcio di rana e toffee con pigne; per quanto riguarda le illustrazioni: troviamo l’immagine di una donna vestita con una sottana fatta di aragoste e teste e corpi umani che accompagnano le portate.
Vogliamo affermare chiaramente, iniziando con la prima ricetta, che, Le cene di Gala con i suoi precetti e le sue illustrazioni, è unicamente dedicato al piacere del palato.
Difficilmente però riusciamo a scindere un artista GLOBALE come Dalì, dal suo essere intrinsecamente Catalano… la sua frase della mandibola si conclude con
…perché è proprio nel momento in cui si arriva al midollo di qualcosa che si scopre il sapore stesso della verità, la nuda e tenera verità che emerge dal pezzo dell’osso fermamente tenuto fra i denti.
E di lui stesso diceva:
bisogna esser pronti al delirio e alla paranoia come fanno i pescatori di Cadaqués, che sugli angeli barocchi e splendenti dell’altare della loro chiesa appendono aragoste vive per far sì che l’agonia di questi animali permetta loro di seguire meglio la passione della Santa Messa.
L’arte ha a che fare con il cibo, visto come un valore essenziale tanto quanto estetico; cibi che hanno una forma definita quindi afferrabili con la mia intelligenza. Non mi piacciono gli spinaci perché sono amorfi, preferisco mangiare le piccole armature dei crostacei che proteggono il loro molle e delizioso caos interno con le armi donate dalla loro anatomia.
Cibo raffigurato nelle sue suggestioni, che ritroviamo in moltissimi riferimenti nelle sue opere. Il cibo diventa una intuizione; un aneddoto racconta che tardando a tavola, Dalì osservò che il formaggio avanzato iniziava a fondersi e colare per il caldo. Quella immagine venne abbinata al senso del tempo che si dilata e si plasma secondo le nostre aspettative. Lo stesso giorno dipinse il suo primo orologio molle, raffigurato nel celebre quadro: La percezione della memoria.
Dalì in cucina: ma il nostro amico era anche un vero goloso, annotava i pasti che gli eran piaciuti, era solito invitare compagnie di amici, pescava e friggeva direttamente sulla barca. Vi lasciamo con un paio di ricette o suggerimenti, o suggestioni di ricette:
Per fare un buon dentice alla marinara occorrono tre tipi di persone: un pazzo, un avaro e un prodigo. Il pazzo deve tenere vivo il fuoco, l’avaro mettere l’acqua e il prodigo l’olio.
I catalani hanno una maniera di condire le fave che fanno di queste uno dei miei piatti preferiti. Per ottenerlo si devono cucinare con prosciutto e botifarra (tipica salsiccia catalana) e il segreto risiede nell’aggiungervi alcune foglioline di lauro e un po’ di cioccolato.
Non vi resta che provare!!!

Birra
Rimanendo in tema dobbiamo parlare di birra e arte. Connubio non del tutto difficile; ci spostiamo a Napoli e presentiamo la birra KBirr una birra che a tutti gli effetti celebra gli artisti, napoletani e non, con impronte artistiche di ogni forma e genere. In ritorno gli artisti esprimono in maniera ironica e stravagante il proprio modo di vedere questa birra.
Da Maura Messina allo street artist Roxy in the box, Nicola Masuottolo con i suoi Futtetenne, dove la pittura a olio si fonde con spray, stencil e collage di ritagli di giornale nelle sue iconografie di santi. Le opere di Alessandro Flaminio de “Le Voci di Dentro”, le opere in materiali poveri dalla cooperativa Iron Angels costituita dai ragazzi del Rione Sanità e formatisi sotto la guida artistica del maestro Riccardo Dalisi. Sculture in legno ispirate alle etichette di Kbirr realizzate dall’artista Eddy Ferro (su disegni di Maura Messina; per finire Luigi Masecchia con i suoi up-cycling.
Non manca perfino un murales; quello di Iabo, ispirato a Jean-Michel Basquiat, uno dei più celebri esponenti del graffitismo americano degli anni Settanta e Ottanta, voluto da Neapolitan Republic e dallo stesso birrificio KBirr. [per maggiori informazioni cercate #CUOREDINAPOLI].
La storia di Fabio Ditto (fondatore e amministratore della KBirr) inizia nel 2016, aprendo il primo birrificio artigianale 100% napoletano, tra l’altro il più grande d’Italia per capacità produttiva. Kbirr viene dalla esclamazione partenopea di gioia; pare avessero esclamato “Caspita, che birr!”, al primo assaggia. KBirr offre sei tipologie artigianali e non filtrate che vanno dalla Lager alle Red Strong Ale e Scotch ale passando per Imperial Stout, American Pale Ale (APA), Golden Ale … decisamente una bella varietà. Ah! Un’ultima cosa, nel 2019 e nel 2020 la birra Kbirr viene premiata nella guida BIRRE di Slow Food; mica poco… â salute!