Mostre Como: la “Cattedrale, rosso e bianco”, un’opera per entrare nell’arte di Kengiro Azuma

di Davide Fent
Prosegue sino al 23 ottobre nella Pinacoteca civica di Como la mostra “Kengiro Azuma. Continuità, lo scorrere della vita” curata e allestita da Anri Ambrogio Azuma e da Federica Minesso.
L’esposizione, che si sviluppa nelle sale espositive al piano nobile della Pinacoteca e nel cortile interno, è arricchita di una nuova installazione, allestita in Campo quadro: La Cattedrale, rosso e bianco. Si tratta di un’opera immersiva di Azuma esposta prima d’oggi solo nel 1998, in occasione della personale “Il Sogno” a Montemarcello Ameglia.
L’opera invita il visitatore ad intraprendere una ricerca alla scoperta dell’infinito. Si accede in Campo quadro sentendo lo YU – il pieno – e attraverso il percorso nell’opera si vede, si sente, si tocca, si ascolta l’invisibile, il MU -il vuoto- con tutti i cinque sensi, risvegliando il sesto.

La mostra in Pinacoteca ripercorre i 90 anni di vita dell’artista, dal Giappone (dove è nato, a Yamagata, nel 1926 da una famiglia di fonditori di bronzo) a Milano (dove è morto nel 2016), e sviluppatasi alla ricerca di se stesso attraverso la sua evoluzione artistica durata sessant’anni.
Una ricerca che per Kengiro Azuma ha il suo fulcro nella filosofia Zen del MU e del YU che sono gli opposti, il vuoto e il pieno, il corpo e lo spirito, la materia e l’anima. La sua filosofia dell’arte rispecchia il suo modo di vivere secondo cui è importante essere e non avere, per cui l’arte non conosce frontiere, colore della pelle, religione, politica, ideologie, diversità, perfezione.

Il piccolo zoo di Kengiro Azuma, composto da ventidue animali, à degli anni ‘65-’66. Gli anni in cui metteva in pratica i consigli del suo maestro Marino Marini, come ben ricorda lo scrittore Luciano Bianciardi nel suo Incontro con Azuma, quando lo conobbe in un bar di Fiori Chiari a Milano nel ‘63: <<Tu devi smetterla di imitarmi. Tu hai dietro di te, dentro di te, una tradizione, una patria, un’infanzia, delle immagini originali. Questo devi tirar fuori, questo devi raccontare>>.
Lo notò subito l’Hammacher, nella sua esemplare monografia su Azuma del ‘71, quando osserva come l’artista ha dovuto compiere una lunga diversione – e approdare a Milano – per scoprire con Marino Marini la propria essenza giapponese, le proprie antiche radici. E “la via” indicata dal Tao-té-ching di Lao-Tzu, quella del perenne mutamento e della mobilità infinita. Non per nulla la famiglia dello scultore apparteneva alla setta Zen del buddismo giapponese. Sia Ballo (1961) sia Dorfles (1966) che Hammacher (1971) insistono sulla stretta relazione di Azuma col pensiero Zen.
Nel ‘59 Azuma comincia a sottrarsi al tridimensionale e intorno al ‘63 elabora superfici semplici, a una sola faccia, da appendersi al muro. Ma già nel ‘66 priva il volume del suo carattere peculiare, tramutandolo da chiuso in aperto. Il Tao infatti non è una via immutabile, bensì una via in continua trasformazione. “La scultura di Azuma diventa allora un dispiegarsi di superfici contigue” (A. M. Hammacher).
Lo stesso scultore confessa poi che il suo lavoro ha molto a che fare con l’orecchio: <<Lo sento spesso in me come musica>>, “il contrapporsi, contrappuntarsi del pieno e del vuoto […], del ruvido e del liscio, del lucido e dell’opaco” (Dorfles); dove ruvido e opaco equivalgono a positivo e negativo d’una dottrina Zen.
L’opera di Azuma in quegli anni 60 “è lo straordinario risultato di una tensione, derivante dall’inserimento dell’artista in una società diversissima da quella nativa. Azuma non torna in patria perché soltanto la distanza può tenere in vita questa necessaria tensione e garantirne la purezza” (A. M. Hammacher).
All’Europa Azuma deve la scoperta di se stesso – in quanto giapponese seguace dello Zen – attraverso la scultura. “Con la propria scultura egli crea più quiete che forma, più una via nello spazio che spazio, più una vita condensata in poche increspature che onde di vita” (A. M. Hammacher).
Anni 60, gli anni del bestiario, una vacanza dello scultore, dove Azuma sfugge al pericolo del realismo con la sua educazione Zen. Cerca di ogni animale la sua forma funzionale, la forma adatta alla sua vita; cerca di tirarne fuori la forma pura, essenziale, che è dentro e non si vede.
Una profonda lezione Zen, una pratica di vita che per millecinquecento anni si è sentita perfettamente a suo agio nel “Vuoto” e un modo di esprimersi che è tanto comprensibile – o forse tanto ambiguo – per l’intellettuale come per l’illetterato. La spontaneità o naturalezza (tzu-jan) del bestiario di Azuma, che pratica il significato dello Zen: “nulla di speciale” (buij). Anche Azuma tenta di modellare “il pesce che nuota nell’acqua ma non si cura dell’acqua”, “l’uccello che vola nel vento ma non sa del vento”. Cerca, insomma, nei suoi animali una perfezione Zen: che siano perfettamente e semplicemente un bestiario, un piccolo zoo.

Di qui il suo amore per la forma degli animali, naturali e concreti, non solo come rappresentazione della natura, ma come fossero – di per sé – opera di natura. La vera tecnica Zen, infatti, implica l’arte della mancanza di arte, della naturalezza (tzu-jan). Così gli animali di Azuma sono fatti con la stessa naturalezza dei suoi modelli: “la tecnica dell’arte è disciplina nella spontaneità e spontaneità nella disciplina” (Alan W. Watts).
La mentalità di Azuma è quella Zen, che si sente completamente a suo agio nel mondo dei suoi animali, che fanno parte integrante di quanto lo circonda. Una mentalità che non produce o non forza nulla ma “fa crescere” i suoi animali. Con questa visione degli animali “di per sé”, con questo amore alla forma, con questo spirito Zen, Azuma ha modellato il suo piccolo, toccante bestiario. Modellati con lo stesso “gusto Zen” che noi ritroviamo negli oggetti di uso quotidiano creati dagli artigiani giapponesi. Col gusto che ritroviamo nelle cose ordinarie, strumentali: suppellettili da cucina, zuppiere, teiere e tazze comuni, stuoie di pavimenti, canestri, vasi, giare e bottiglie, tessuti per gli abiti di ogni giorno, e un centinaio di altri semplici manufatti, dove il buon gusto è unito alla massima comodità.
Ecco, animali di buon gusto, “comodi” e preziosi, di un così alto artigianato che diventano opera d’arte. Le radici di Kengiro Azuma, nato a Yamagata nel 1926, proviene infatti da una famiglia di fonditori di bronzo, erede di una lunga tradizione artigianale, continuata dal fratello. Rimasto presto orfano, visse col nonno e il padre scultori, frequentando il loro studio, osservandoli mentre lavoravano, prendendo egli stesso confidenza con la creta e l’arte di plasmare.
Ecco, un figlio d’arte e di una gloriosa tradizione di artigiani: penso alla bellezza degli attrezzi agricoli in ferro battuto intravisti nel suo studio, da tener testa alle più sofisticate sculture moderne.
Infine, l’atteggiamento di Azuma di fronte alle sue opere è sempre e poi sempre quello Zen: di “meditazione”, “acquietamento”, “concentrazione”. Di fronte alle sue sculture “mentali”, pensate, meditate, concise, Azuma si pone dunque in modo da trascendere la realtà illusoria delle forme, appresa secondo la grossolana e accettata esperienza dei sensi per arrivare con grande purezza e semplicità alla conoscenza della verità essenziale di esse.

Pinacoteca civica, via Diaz 84 – Como
Biglietto di ingresso Pinacoteca civica:
Tariffa intera € 5,00
Tariffa ridotta € 3,00
Biglietto cumulativo € 12,00
Family pass € 12,00
Tel. +39 031269869
musei.civici@comune.como.it
Orari
Da martedì a domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì 15 agosto 2022 giorno ordinario di chiusura